Archivio di Agosto 2012
A PROPOSITO DI RAZZISTI E NAZISTI
Pubblichiamo una foto scattata il 26 luglio 2012 e fatta pervenire la mattina del giorno dopo ai seguenti destinatari: Vittorio Feltri presso il “Giornale – il Direttore di “Libero” e il Questore di Milano, accompagnata dal seguente testo :
” Sottoponiamo la fotografia di una minacciosa e preoccupante scritta murale apparsa a Milano, al cavalcavia Buccari-piazza S. Gerolamo-
(per via Corelli).
Da non sottovalutare.
(per via Corelli).
Da non sottovalutare.
Federico Caravita –
Referente del Comitato Cittadino
di via Giovanni Cova-Milano.”
Referente del Comitato Cittadino
di via Giovanni Cova-Milano.”
Oggi, 31 luglio, la scritta murale è stata prontamente cancellata.
Esaminando con attenzione la foto, notiamo che la scritta tradotta in italiano dice:
Esaminando con attenzione la foto, notiamo che la scritta tradotta in italiano dice:
AFRICANI VINCITORI
Sezione Milano
95 N. T by cma (oppure cna)
Sezione Milano
95 N. T by cma (oppure cna)
Cosa possiamo dedurre da questo messaggio ? Noi deduciamo che a Milano, o in Italia, esiste un’organizzazione di individui africani che si dichiarano VINCITORI!
Vincitori di che cosa e contro chi ?
Naturalmente si annunciano incitori di una loro causa e contro gli stessi abitanti del territorio che calpestano e occupano arbitrariamente. Quindi in applicazione di una volontà di guerra e non certamente di “pacifica integrazione”.
Inoltre, l’indicazione “SECTION MILANO”, con tanto di numero e sigle criptiche, vuole significare qualcosa per i misteriosi “african winners”, ma resta ignoto ai cittadini italiani.
Tutto ciò denota e conferma che nel nostro Paese è già notevolmente attiva un’occulta organizzazione, ben articolata, di gente africana ( arabi? magrebini? neri del Centro Africa ?). Noi non possiamo saperlo, ma ora tocca alle competenti autorità di indagare e scoprire, rapidamente e senza incertezze, sul fenomeno pericoloso di una segreta organizzazione straniera avente scopi non certo pacifici nei confronti del popolo italiano. Noi ci limitiamo a segnalare l’episodio, come un minaccioso avvertimento rivolto agli italiani di Milano e probabilmente di tutta Italia. Seguiremo con estrema attenzione gli “eventuali” sviluppi di “eventuali” indagini (!?). Che non si metta però tutto a tacere e nel dimenticatoio, come al solito! Gli italiani e specialmente la gente del nord, non accettano più immigrazioni incontrollate se non addirittura favorite. Basta! O andremo Presto a finire in una notte di San Bartolomeo; ma questa volta verrebbe versato sangue italiano!
Vincitori di che cosa e contro chi ?
Naturalmente si annunciano incitori di una loro causa e contro gli stessi abitanti del territorio che calpestano e occupano arbitrariamente. Quindi in applicazione di una volontà di guerra e non certamente di “pacifica integrazione”.
Inoltre, l’indicazione “SECTION MILANO”, con tanto di numero e sigle criptiche, vuole significare qualcosa per i misteriosi “african winners”, ma resta ignoto ai cittadini italiani.
Tutto ciò denota e conferma che nel nostro Paese è già notevolmente attiva un’occulta organizzazione, ben articolata, di gente africana ( arabi? magrebini? neri del Centro Africa ?). Noi non possiamo saperlo, ma ora tocca alle competenti autorità di indagare e scoprire, rapidamente e senza incertezze, sul fenomeno pericoloso di una segreta organizzazione straniera avente scopi non certo pacifici nei confronti del popolo italiano. Noi ci limitiamo a segnalare l’episodio, come un minaccioso avvertimento rivolto agli italiani di Milano e probabilmente di tutta Italia. Seguiremo con estrema attenzione gli “eventuali” sviluppi di “eventuali” indagini (!?). Che non si metta però tutto a tacere e nel dimenticatoio, come al solito! Gli italiani e specialmente la gente del nord, non accettano più immigrazioni incontrollate se non addirittura favorite. Basta! O andremo Presto a finire in una notte di San Bartolomeo; ma questa volta verrebbe versato sangue italiano!
Federico Caravita.
Dalla BCE un altro cerotto per l’euro
Proponiamo un importante articolo apparso il 30 Luglio 2012 sul
CORRIERE DEL TICINO
CORRIERE DEL TICINO
IL COMMENTO di ALFONSO TUOR
Le dichiarazioni di Mario Draghi, secondo cui la Banca centrale europea è pronta a tutto per salvare l’euro, hanno radicalmente mutato l’umore dei mercati finanziari ed hanno spinto molti a prevedere la fine della crisi della moneta unica europea. In effetti, i mercati azionari, che avevano cominciato la settimana scorsa con pesanti ribassi, si sono ripresi e i rendimenti dei titoli di Stato spagnoli e italiani, che si erano inerpicati verso livelli insostenibili, sono diminuiti. I mercati finanziari sembrano credere alla capacità della BCE di raffreddare la crisi anche perché le parole di Mario Draghi sono state condivise dai principali leader europei e disapprovate unicamente dalla banca centrale tedesca. Le dichiarazioni di Angela Merkel hanno indotto molti a ritenere che siano state superate le titubanze tedesche e che ora esista una sufficiente coesione politica a livello europeo per disinnescare la lunga crisi della moneta unica europea. Ci si può dunque interrogare se siamo in presenza di una vera svolta.
Vi è più di un motivo per dubitarne. Il successo iniziale dell’annuncio di Mario Draghi deve ancora tradursi in interventi concreti tesi a calmierare i tassi di interesse di Spagna ed Italia. Le possibilità di intervento dell’istituto di Francoforte sono notevoli. L’esperienza degli ultimi anni dimostra però che finora sono solo serviti ad evitare che la crisi precipitasse e a guadagnare tempo. Infatti nella seconda metà dell’anno scorso la BCE acquistò più di 200 miliardi di titoli dei Paesi in difficoltà senza riuscire ad intaccare in modo significativo e soprattutto duraturo i loro rendimenti. All’inizio di quest’anno la BCE
iniettò nel settore bancario del Vecchio continente oltre 1.000 miliardi di euro, che hanno calmato il nervosismo dei mercati per pochi mesi e che soprattutto non si sono tradotti in crediti ad imprese e a famiglie per rilanciare la crescita economica. Allo stato attuale non è ancora nota quale strada concreta la Banca centrale europea intenda seguire per mantenere fede alla sua promessa. È comunque certo che se vorrà ottenere un significativo e duraturo calo dei rendimenti dei titoli di Stato spagnoli ed italiani l’intervento dovrà essere molto consistente e prolungato nel tempo. Le iniziative diplomatiche intraprese dagli Stati Uniti negli ultimi giorni e soprattutto il rallentamento della crescita americana, che nel secondo trimestre di quest’anno si è fermata all’1,5% (ossia allo 0,4%, usando i criteri europei), fanno ritenere plausibile che le mosse della Banca centrale europea verranno affiancate da nuove iniziative della Federal Reserve tese a rilanciare l’economia a stel le e strisce e a ridare vigore alla campagna elettorale di un presidente Obama in difficoltà proprio per gli insuccessi dell’amministrazione sul piano economico.
Ma anche se la Banca centrale europea e quella americana decideranno di utilizzare gran parte delle armi in loro possesso, i risultati saranno solo temporanei. Nella situazione attuale questi interventi di politica monetaria aiutano unicamente il sistema bancario e i mercati finanziari e si trasmettono in modo assolutamente insufficiente all’economia reale. In pratica, combattono gli eccessi della febbre, ma non aggrediscono la malattia che li causa, che si chiama in alcuni Paesi recessione ed in altri Paesi tassi di crescita troppo modesti. Nel Vecchio continente, in particolare, danno un temporaneo sospiro di sollievo a Spagna ed Italia, che potranno nel breve periodo superare la paura di vedersi di fatto negato l’accesso ai mercati dei capitali, ma non risolvono i loro problemi dovuti ad eco nomie che si stanno avvitando in una recessione sempre più profonda. Questi Paesi, che già oggi hanno difficoltà a rispettare gli obiettivi di risanamento dei conti pubblici concordati con Bruxelles, devono poi cominciare subito ad impegnarsi a rispettare il Patto fiscale sottoscritto per ridurre il loro debito pubblico al 60% del PIL nel giro di vent’anni. Nel caso dell’Italia ciò equivale ad attuare per due decenni manovre fiscali di una quarantina di miliardi di euro l’anno. Se questi parametri non verranno rispettati, sarà ben difficile convincere la Germania a giungere a quell’Unione bancaria e politica, ritenuta da Berlino la condizione imprescindibile di una condivisione dei debiti dei Paesi di Eurolandia.
In conclusione, la discesa in campo della Banca centrale europea servirà unicamente ad evitare che la crisi scappi di mano, come sembrava stesse succedendo all’inizio della settimana scorsa. Essa permette pure di guadagnare tempo per riprendere il filo della discussione politica sulle reali possibilità di salvare la moneta unica europea.
Le dichiarazioni di Mario Draghi, secondo cui la Banca centrale europea è pronta a tutto per salvare l’euro, hanno radicalmente mutato l’umore dei mercati finanziari ed hanno spinto molti a prevedere la fine della crisi della moneta unica europea. In effetti, i mercati azionari, che avevano cominciato la settimana scorsa con pesanti ribassi, si sono ripresi e i rendimenti dei titoli di Stato spagnoli e italiani, che si erano inerpicati verso livelli insostenibili, sono diminuiti. I mercati finanziari sembrano credere alla capacità della BCE di raffreddare la crisi anche perché le parole di Mario Draghi sono state condivise dai principali leader europei e disapprovate unicamente dalla banca centrale tedesca. Le dichiarazioni di Angela Merkel hanno indotto molti a ritenere che siano state superate le titubanze tedesche e che ora esista una sufficiente coesione politica a livello europeo per disinnescare la lunga crisi della moneta unica europea. Ci si può dunque interrogare se siamo in presenza di una vera svolta.
Vi è più di un motivo per dubitarne. Il successo iniziale dell’annuncio di Mario Draghi deve ancora tradursi in interventi concreti tesi a calmierare i tassi di interesse di Spagna ed Italia. Le possibilità di intervento dell’istituto di Francoforte sono notevoli. L’esperienza degli ultimi anni dimostra però che finora sono solo serviti ad evitare che la crisi precipitasse e a guadagnare tempo. Infatti nella seconda metà dell’anno scorso la BCE acquistò più di 200 miliardi di titoli dei Paesi in difficoltà senza riuscire ad intaccare in modo significativo e soprattutto duraturo i loro rendimenti. All’inizio di quest’anno la BCE
iniettò nel settore bancario del Vecchio continente oltre 1.000 miliardi di euro, che hanno calmato il nervosismo dei mercati per pochi mesi e che soprattutto non si sono tradotti in crediti ad imprese e a famiglie per rilanciare la crescita economica. Allo stato attuale non è ancora nota quale strada concreta la Banca centrale europea intenda seguire per mantenere fede alla sua promessa. È comunque certo che se vorrà ottenere un significativo e duraturo calo dei rendimenti dei titoli di Stato spagnoli ed italiani l’intervento dovrà essere molto consistente e prolungato nel tempo. Le iniziative diplomatiche intraprese dagli Stati Uniti negli ultimi giorni e soprattutto il rallentamento della crescita americana, che nel secondo trimestre di quest’anno si è fermata all’1,5% (ossia allo 0,4%, usando i criteri europei), fanno ritenere plausibile che le mosse della Banca centrale europea verranno affiancate da nuove iniziative della Federal Reserve tese a rilanciare l’economia a stel le e strisce e a ridare vigore alla campagna elettorale di un presidente Obama in difficoltà proprio per gli insuccessi dell’amministrazione sul piano economico.
Ma anche se la Banca centrale europea e quella americana decideranno di utilizzare gran parte delle armi in loro possesso, i risultati saranno solo temporanei. Nella situazione attuale questi interventi di politica monetaria aiutano unicamente il sistema bancario e i mercati finanziari e si trasmettono in modo assolutamente insufficiente all’economia reale. In pratica, combattono gli eccessi della febbre, ma non aggrediscono la malattia che li causa, che si chiama in alcuni Paesi recessione ed in altri Paesi tassi di crescita troppo modesti. Nel Vecchio continente, in particolare, danno un temporaneo sospiro di sollievo a Spagna ed Italia, che potranno nel breve periodo superare la paura di vedersi di fatto negato l’accesso ai mercati dei capitali, ma non risolvono i loro problemi dovuti ad eco nomie che si stanno avvitando in una recessione sempre più profonda. Questi Paesi, che già oggi hanno difficoltà a rispettare gli obiettivi di risanamento dei conti pubblici concordati con Bruxelles, devono poi cominciare subito ad impegnarsi a rispettare il Patto fiscale sottoscritto per ridurre il loro debito pubblico al 60% del PIL nel giro di vent’anni. Nel caso dell’Italia ciò equivale ad attuare per due decenni manovre fiscali di una quarantina di miliardi di euro l’anno. Se questi parametri non verranno rispettati, sarà ben difficile convincere la Germania a giungere a quell’Unione bancaria e politica, ritenuta da Berlino la condizione imprescindibile di una condivisione dei debiti dei Paesi di Eurolandia.
In conclusione, la discesa in campo della Banca centrale europea servirà unicamente ad evitare che la crisi scappi di mano, come sembrava stesse succedendo all’inizio della settimana scorsa. Essa permette pure di guadagnare tempo per riprendere il filo della discussione politica sulle reali possibilità di salvare la moneta unica europea.
QUANDO BIONDA AURORA
Proponiamo questo importante articolo apparso il 30 Luglio 2012 sul
CORRIERE DEL TICINO
CORRIERE DEL TICINO
di Michele Fazioli
Mettiamo (ma non è il caso) di dover pronunciare dopodomani un discorso del primo d’agosto. Che direi? Proverei a parlare della sostanza e della simbologia di questa nostra «svizzerità» così singolare: diversissimi per culture ed etnie, da secoli siamo tenuti insieme da una solidissima unità nazionale. Sembra un miracolo (nessun’altra nazione si permette un pluralismo simile) eppure funziona. Si può cercare anche di capire bene il perché di questa solidità eccezionale dovuta non a una omogeneità geografica (abbiamo le Alpi in mezzo) o a una sola lingua (ne abbiamo quattro) ma a un lavorio secolare di eventi, concause, volontà. La storia ha costruito nel tempo e negli eventi (attraverso la Realpolitik di interessi, mediazioni, sicurezza) una tradizione di identità, una funzionalità nazionale che trascende le diversità. Ed è cresciuto un forte senso di appartenenza, corroborato da valori e simbologie che forse oggi scricchiolano un poco. Infatti anche a voler prescindere dai miti di Gugliemo Tell e del Grütli, esistevano fino a pochi anni fa impasti solidissimi di cemento patrio: un esercito onnipresente che coinvolgeva di anno in anno i cittadini soldati, tutti, fino alla mezza età (magari seccati ma anche in qualche modo fieri di quel rito identitario e organizzato), le gialle PTT e la rossa Swissair funzionanti, la quieta efficienza di banche e colossi farmaceutici, prati ben tosati, cioccolato, orologi, alpi e trenini. Ora sono cambiate molte cose. L’esercito sta diventando sempre più selezionato e giovane, la Swissair è morta, le PTT si sono smembrate, ci resta il pi-po-po degli autopostali, Swisscom è quasi una multinazionale, gli orologi e persino il formaggio Emmental sono globalizzati, le banche svizzere hanno conosciuto bufere di sostanza e di immagine. Per fortuna tiene duro, come simbolo vivente, Roger Federer, che è un vero gentlemen vincente, affascina ed è reale, molto più di Heidi che è finta. Ma soprattutto a tenerci bene insieme c’era e nonostante tutto c’è ancora un benessere sperimentato. Quando si sta bene, si va anche d’accordo bene.
Anni fa l’editorialista romando Jacques Pilet, reduce da una visita nella ex Jugoslavia dopo la guerra fratricida scrisse: «Se noi svizzeri fossimo stati poveri come quelle popolazioni, forse avremmo cominciato anche noi a combatterci». Senza giungere a tanto, è ben vero che la tranquillità economica e sociale lustra la volontà di convivenza federale e multiculturale mentre la drammaticità del bisogno accende paure e diffidenze. E dunque sembrano esserci due condizioni irrinunciabili per continuare a essere svizzeri in modo persuaso e vincente: il federalismo e il benessere. Il federalismo inteso come vitalità di autonomie ben calibrate (diversità nell’unità), il benessere inteso come ricchezza economica e solidarietà sociale: se è vero infatti che per ridistribuire la ricchezza essa deve essere prima guadagnata, vanno difesi sia il principio di sostegno all’economia e al capitale (senza più le diffidenze ideologiche degli anni del massimalismo per cui ogni padrone era un potenziale nemico del popolo), sia il principio della solidarietà come attenzione alle frange meno fortunate e come riequilibrio sociale e garanzia delle chances di partenza per tutti. Dopotutto è così bello essere svizzeri che vale la pena cercare di continuare a esserlo a lungo. Via ai fuochi d’artificio.
Mettiamo (ma non è il caso) di dover pronunciare dopodomani un discorso del primo d’agosto. Che direi? Proverei a parlare della sostanza e della simbologia di questa nostra «svizzerità» così singolare: diversissimi per culture ed etnie, da secoli siamo tenuti insieme da una solidissima unità nazionale. Sembra un miracolo (nessun’altra nazione si permette un pluralismo simile) eppure funziona. Si può cercare anche di capire bene il perché di questa solidità eccezionale dovuta non a una omogeneità geografica (abbiamo le Alpi in mezzo) o a una sola lingua (ne abbiamo quattro) ma a un lavorio secolare di eventi, concause, volontà. La storia ha costruito nel tempo e negli eventi (attraverso la Realpolitik di interessi, mediazioni, sicurezza) una tradizione di identità, una funzionalità nazionale che trascende le diversità. Ed è cresciuto un forte senso di appartenenza, corroborato da valori e simbologie che forse oggi scricchiolano un poco. Infatti anche a voler prescindere dai miti di Gugliemo Tell e del Grütli, esistevano fino a pochi anni fa impasti solidissimi di cemento patrio: un esercito onnipresente che coinvolgeva di anno in anno i cittadini soldati, tutti, fino alla mezza età (magari seccati ma anche in qualche modo fieri di quel rito identitario e organizzato), le gialle PTT e la rossa Swissair funzionanti, la quieta efficienza di banche e colossi farmaceutici, prati ben tosati, cioccolato, orologi, alpi e trenini. Ora sono cambiate molte cose. L’esercito sta diventando sempre più selezionato e giovane, la Swissair è morta, le PTT si sono smembrate, ci resta il pi-po-po degli autopostali, Swisscom è quasi una multinazionale, gli orologi e persino il formaggio Emmental sono globalizzati, le banche svizzere hanno conosciuto bufere di sostanza e di immagine. Per fortuna tiene duro, come simbolo vivente, Roger Federer, che è un vero gentlemen vincente, affascina ed è reale, molto più di Heidi che è finta. Ma soprattutto a tenerci bene insieme c’era e nonostante tutto c’è ancora un benessere sperimentato. Quando si sta bene, si va anche d’accordo bene.
Anni fa l’editorialista romando Jacques Pilet, reduce da una visita nella ex Jugoslavia dopo la guerra fratricida scrisse: «Se noi svizzeri fossimo stati poveri come quelle popolazioni, forse avremmo cominciato anche noi a combatterci». Senza giungere a tanto, è ben vero che la tranquillità economica e sociale lustra la volontà di convivenza federale e multiculturale mentre la drammaticità del bisogno accende paure e diffidenze. E dunque sembrano esserci due condizioni irrinunciabili per continuare a essere svizzeri in modo persuaso e vincente: il federalismo e il benessere. Il federalismo inteso come vitalità di autonomie ben calibrate (diversità nell’unità), il benessere inteso come ricchezza economica e solidarietà sociale: se è vero infatti che per ridistribuire la ricchezza essa deve essere prima guadagnata, vanno difesi sia il principio di sostegno all’economia e al capitale (senza più le diffidenze ideologiche degli anni del massimalismo per cui ogni padrone era un potenziale nemico del popolo), sia il principio della solidarietà come attenzione alle frange meno fortunate e come riequilibrio sociale e garanzia delle chances di partenza per tutti. Dopotutto è così bello essere svizzeri che vale la pena cercare di continuare a esserlo a lungo. Via ai fuochi d’artificio.